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lunedì 1 ottobre 2012

Japaneses do it better. Ringu.


Io ho fatto catechismo. Certo, non me ne vanto, sarei potuta andare nei campetti a sniffare colla o a fare furtarelli nei supermercati come tutti i ragazzini, ma i miei mi hanno battezzato, e una volta che entri nel giro ti obbligano a fare cose di cui ti vergognerai per il resto della vita. Comunque, fin dalle prime lezioni, in mezzo a discorsi su verginità, martirii e pani che si moltiplicano (sarà la lievitazione?), le catechiste infilavano questo discorso sugli “atti impuri”: che sono sbagliati, che non si fanno e non si guardano nemmeno, e se lo fai, la tua vista subisce cali che manco le borse dopo i casini di Lehman Brothers. Quindi molti bambini italiani sono cresciuti interiorizzando che guardare porcherie, siano esse sotto forma di Postalmarket o cassetta porno, facesse in qualche modo male al loro fisico. Via tutti i vhs zozzi dalla videoteca di famiglia e mamma che va a comprare i vestiti in negozio.
Il Giappone non è un paese cattolico. Quindi nessuno deve aver avvisato i ragazzini giapponesi sulle insidie potenzialmente mortali nascoste in una videocassetta. Perché in “Ringu” questo succede: vedi il video e dopo 7 giorni muori. Lo so cosa state pensando, meglio il porno e la cecità, sono d’accordo. Anche perché il filmato non è che mostri chissà che: una serie di immagini senza senso e slegate tra loro. Un film di Lynch, in pratica.
Ora, io non sono scema, so che questo è un film del 1998, e siamo nel 2012. Ci sono anche altissime probabilità che voi abbiate visto il remake americano, “The ring”. Ma non mi importa. Perché Ringu avrà pure 14 anni, ma fa ancora la sua porca figura: i giapponesi avranno copiato un sacco di cose, ma quando fanno qualcosa di originale, non c’è imitazione che tenga. Per sicurezza vi rinfresco la trama: delle ragazzine muoiono inspiegabilmente una settimana dopo aver visto una misteriosa videocassetta. Tra le vittime c’è anche la nipote di una giornalista, che inizia a indagare con l’aiuto dell’ex marito. Giornalista scema, perché come se non bastasse l’essere single, in una società ultra-competitiva e con un figlio da crescere, decide di smuovere un po’ le cose guardandosi il video incriminato.
Sono tanti i motivi per vedere e rivedere Ringu. Anzitutto è un bel film dal punto di vista formale: regia, fotografia, ambientazioni, tutto risente dell’elegante precisione per cui il paese del Sol Levante è famoso.
Poi per quel senso di inquietudine e di ansia che il film, un po’ grazie alla storia, un po’ grazie al conto alla rovescia che si innesca, un po’ grazie all’ottimo uso degli effetti sonori e alle disturbanti immagini che compongono la videocassetta mortale, sa creare nello spettatore.
Un po’ per l’effetto amarcord tecnologico, per tornare a quando, se dovevi far vedere un filmato a un amico, non bastava copiargli il link su skype, ma dovevi noleggiare la cassetta, invitarlo a casa tua, chiedere a tua madre di preparare succo e biscotti e stravaccarti insieme a lui sul divano col telecomando a portata di mano.
Infine perché quando sullo schermo compaiono le ragazzine quattordicenni che si abbracciano, o la studentessa-assistente che entra nello studio dell’ex marito della protagonista, o la protagonista che abbraccia e accarezza un cadavere, io non posso impedire alla mia mente di pensare alle perversioni sessuali e al grosso contributo alla materia che i giapponesi hanno dato.  Soprattutto, non posso fare a meno di pensare al fatto che arrivino a pagare 200 euro per un paio di mutandine usate. E che io ho finalmente trovato il mio piano B.

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