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martedì 20 novembre 2012

Il mio grasso, grasso matrimonio grasso. The wedding party.


Diceva un grande pensatore dei nostri tempi che “Noi le tette le dobbiamo pensare come l’utopia de Galeano. Che diceva il grande Edoardo Galeano? Diceva che l’utopia è come l’orizzonte. Tu fai due passi avanti, quello s’allontana de due passi. Tu fai tre passi e quello s’allontana di tre passi. E allora, dice, a che cosa serve l’utopia? Serve a camminare. E allora, a che cosa servono le tette nel nostro film? A sbijetta’, a incassa’, a fa’ i soldi.” Ecco. Nei chick flick, le tette sono i protagonisti maschili boni. Immaginate in un film corale, dove c’è più di una protagonista e – ça va sans dire – più di un leading man.
Non ci siamo, The wedding party, proprio non ci siamo. Abbiamo 3 eroine, più l’amica cicciona che si sposa, quindi 4 maschi, e manco uno che ci fa bagnare le mutandine? Ma hanno fatto il casting coi punti della Coop?
“Sì, guardi, ho completato due tessere, che mi date?”
“Se aggiunge 147,23 euro ve ne diamo uno vagamente decente, uno tendente al pingue e uno che passava lì per caso”.
Tra l’altro, per farvi capire, quello vagamente decente è James Marsden, che se voi avete visto uno dei film delle saga degli X-Men, già conoscete: è Ciclope, il fidanzato di Jean Grey, che lei quasi tradisce con Wolverine/Hugh Jackman. Quasi. Significa che non lo fa. Sì, amiche, pure io credo che a Hollywood abbiano seri problemi sessuali.
Quindi, eliminata la questione maschione, che ci rimane? Bah, dico io. Ben poco. Anche perché questo film lo avevano presentato come la (ennesima) scoperta indie del Sundance (non vorrei aprire polemiche, ma dire che il Sundance è il paradigma della cinematografia indie è come dire che McDonald’s è altissima gastronomia). Secondo loro avrebbe dovuto scandalizzarci vedere sullo schermo 3 circatrentenni che sniffano coca e si autoinducono il vomito. Sai che roba, basta andare in Corso Como (popolare zona delle notti milanesi, ndr) durante il week-end.
Poi vabbè, le protagoniste sono 3 belle ragazze, e tutte e tre riescono a coprire l’intero arco dell’identificazione tricologica (in sostanza sono una bionda, una mora e una rossa, quindi ogni donna può ritrovarci dentro la sua chioma). Ma non bastano dei bei capelli per fare un chick flick. Sennò guarderemmo tutte Barbie Raperonzolo, cari i miei sceneggiatori.
Sono solo due le cose che permettono di vedere questo film senza vomitare come le protagoniste:
-il momento in cui Lizzy Caplan enuncia la sua teoria dei pompini. Punto di vista interessante, anche se non lo condivido: meglio sempre da 10. Una volta che hai indotto una dipendenza pari a quella dall’eroina, puoi chiedere qualunque cosa.
-il vestito di Kirsten Dunst. Meraviglioso. Il classico vestito perfetto per bionde algide che si intrufolano in appartamenti di vicini uxoricidi; o che si barricano in casa sotto la minaccia di migliaia di volatili; o incallite cleptomani col terrore dei temporali e del contatto fisico maschile (se non capite manco adesso vengo là e vi meno).
Ora voi vi starete chiedendo: “Ma di che cazzo parla però questo film?”.
E infatti: Kirsten Dunst, Isla Fisher, Lizzy Caplan e un’altra ragazza cicciona sono amiche dalle superiori. Un bel giorno, la cicciona annuncia il suo matrimonio, provocando rigurgiti di bile nelle “amiche” che, pur essendo belle e magre, sono dei disastri ambulanti sul piano delle relazioni. Quindi si radunano tutte per l’addio al nubilato precedente il giorno del matrimonio (mossa furba: niente di meglio che fare nottata per affascinare il proprio sposo sull’altare con rigurgiti al retrogusto di vomito), e noi seguiamo le tre troiette nella nottatona e nella giornatona della festa. Nottatona in cui, per colpa loro, al povero vestito da sposa capita di tutto, dalle macchie di sangue, a quelle di sperma, agli strappi sul corpetto. In pratica, “Una notte da leoni” in salsa di estrogeni. Con la differenza che “Una notte da leoni”, oltre ad essere più divertente, ha dentro Bradley Cooper. E lui, a occhio e croce, è una bella quarta abbondante.

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